Lost. Palermo

Palermo chiama e io rispondo, in un momento di personale fragilità, consapevole di quanto possa essere impattante, questa città. E mi ci sono persa, dentro Palermo, in generale e in particolare, nei luoghi fisici e in quelli mentali, perché il capoluogo siciliano è specchio, amplificato, della complessità isolana.
Tentacolare, ammaliatrice, non la leggi facilmente, Palermo, non la domini con una cartina in mano. Ho cercato luoghi che non ho trovato, e ho trovato luoghi che non stavo cercando, perché è il caso che ti deve aiutare, quando visiti Palermo, e le informazioni che raccogli prima, no, non sono sufficienti.
Ci vuole pazienza per vedere Palermo, e i palermitani, certo, non ti possono aiutare in questa ricerca, nonostante la loro gentilezza e la loro disponibilità, chissà forse perché faticano pure loro a comprenderla, la vivono sì, e ci si abituano, ma forse, chissà, non la capiscono.





Ci vuole impegno e costanza per capire Palermo, i meccanismi che ne determinano il funzionamento perché, in realtà, l'unica regola qui sembra essere il caos, la mancanza d'ordine, non il disordine. Bisogna insistere per cogliere la bellezza disarmante di un passato sofferente e glorioso, di quell'intreccio inestricabile di locali, arabi, normanni, spagnoli e francesi che oggi convive con la fatiscenza, la non curanza, il menefreghismo tipicamente italiano. A causa di questo menefreghismo, che è pure diventato cultura, è sporca infatti, Palermo, ma questa sporcizia non la infanga, non la tocca nel profondo, anzi diventa quasi una cifra stilistica, un carattere che la rende unica perché, nonostante la spazzatura che cinge vie, vicoli e piazze, è bella, Palermo, bella sì, per coloro che ne sanno cercare la bellezza nascosta, la cultura antica e sorniona di un popolo oltraggiato e sempre sopravvissuto, i colori, gli odori che quella cultura ha prodotto nei secoli. Perciò è pure nobile, Palermo, anche nella miseria che la offusca perché resta fiera, ritta in piedi e alza lo sguardo in tono di sfida.





E se la città è tutte queste cose, in generale, per me resta la luce dorata, bizantina che la scalda anche quando l'estate è finita, il rumore continuo, simile a un cuore pulsante, il traffico incontenibile – ognuno per sé e dio per tutti – il clacson delle macchine che serve per salutare, testimoniare semplicemente di esserci lì, e solo dopo per chiedere strada o sollecitare lo scorrimento. Ma Palermo, per me, è anche la musica del suo dialetto, la cantilena seducente degli accenti, il raddoppio forzato delle consonanti, a sottolineare quasi che non si sta dicendo mica una parola qualunque. Palermo è la gente che ti risponde sempre guardandoti negli occhi, anche se magari ti risponde sbagliato o impreciso, ma è così che funziona perché l'approssimazione è la cosa più vicina alla realtà dei fatti a Palermo: ciò che conta è la buona volontà.




Palermo è i suoi bambini sguinzagliati come cani (mentre i cani veri, quelli, dormono) che giocano a pallone anche nelle vie più trafficate, rubando alle macchine i rari istanti di vuoto, perché tanto hanno imparato presto a rischiare, in strada.
Palermo è un dedalo di vie e viuzze che ti attirano e ti spaventano, è un unico grande suq, dove molti vendono e pochi comprano, ma stanno tutti lì a recitare la loro parte, ogni giorno che dio manda in terra. E sparse su questo grande palcoscenico dei pupi ci stanno le chiese, a Palermo, bellissime, fastose e ascetiche, immobili eppure vigili, circondate da motorini che sgommano e tavolini all'aperto che assistono svogliati agli strusci.







Palermo è un'anima che ogni giorno si sdraia sulla vita tra una risata e una lacrima. E siccome ogni anima viva deve mangiare, la cucina ha dovuto qui stare all'altezza dell'anima: è la somma precisa, eppure estrosa, del suo passato e delle sue culture. L'equilibrio perfetto di un gusto a chiara vocazione barocca: di tutto e di più, ma sapientemente abbinato, combinato, sposato; una lunga serie di matrimoni felici, dai fritti buoni che trovi ad ogni angolo di via, sempre pronti a sedurti, sempre uguali e sempre diversi, perché ognuno li fa alla sua maniera e ci mette del suo, alle lussoriose opere di pasticceria, amplessi del dolce che ti avvolgono a suon di ricotta, cannella, mandorle e pistacchi, e dei quali non ci si stanca. Pericolosamente.






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